POLITICA
E SOCIAL MEDIA
Le nuove
frontiere della comunicazione
Autore:
Monica
Vargiu
Fonte:
InStoria.it
Nell’eterno dibattito intellettuale se la politica sia
un’arte o una scienza alchemica e in un clima sociale da
perenne campagna elettorale che, complice il Referendum del
4 dicembre, è sempre più invelenito e senza esclusione di
colpi, sembrano veramente lontanissimi i tempi in cui
storici esponenti di partito come De Gasperi, Moro o
Berlinguer, leader iconici del nostro recente passato,
affidavano a stringati comunicati stampa le loro
dichiarazioni, o quando i loro interventi nei comizi,
attesi, quanto celebrati, entusiasmavano le masse, ma erano
nel contempo misurati e composti, esprimevano autorevolezza,
carisma, erano insomma per l’elettorato di riferimento
appuntamenti chiave con valenza educativa, poiché l’eloquio
rispecchiava credibilità e compostezza di fondo, anche
quando i toni usati erano asciutti duri e perentori.
Conclusasi l’era delle grandi ideologie e delle rigide
contrapposizioni, che hanno rivelato drammaticamente sia i
limiti del sistema sia la staticità di molti ragionamenti,
siamo passati da una logica quasi esclusivamente
partitocratica a quella in perenne mutamento che punta
prevalentemente sulla personalizzazione della competizione
politica e alla nascita o alla creazione ragionata di guest
star che diventano “prodotto commerciale” da posizionare
spesso e ovunque, per rispondere ai bisogni e alle esigenze
degli elettori e sottoposto sovente, con algebrica
freddezza, alle logiche spietate del marketing su larga
scala.
Oggi, complici i tempi e l’omologazione sempre più
imperante, le interazioni in tempo reale fra utenti e nuove
tecnologie hanno determinato un massiccio cambiamento del
registro comunicativo del linguaggio politico, infatti non
si aspettano più i comunicati ufficiali battuti dalle
agenzie o affidati ai portavoce, poiché è lo stesso
rappresentante di partito o di governo che comunica in modo
pressoché istantaneo a un vastissimo bacino d’utenza,
ottimizzando i tempi e privilegiando toni più confidenziali
e meno istituzionali, che accorciano le distanze, almeno in
apparenza, fra politica ed elettorato reale o potenziale che
sia.
Se per il recentemente scomparso teorico e padre spirituale
dei pentastellati Gianroberto Casaleggio la rete è politica
allo stato puro, quindi in presa diretta e senza filtri, per
il regista Robert Altman, la politica è oggi così
sovraesposta ai media che nemmeno nei film ha detto cose che
non avrebbe potuto ripetere uguali in un telegiornale; il
“sensazionale” è dunque diventato “ordinario”, al punto che
in molti casi ha smarrito forza e capacità performante, il
quesito da porsi a questo punto, sarebbe quello che stimi
l’accrescimento del valore aggiunto democratico, cosa più
facile a dirsi che a farsi visti gli evidenti limiti posti
da un dissertazione filosofica a metà strada fra dato reale
e astrazione.
Il professor Vittorio Coletti, esponente celebre
dell’Accademia della Crusca ha evidenziato che si è passati
da “una lingua colta, forte ed esclusiva a una lingua
debole, popolare e inclusiva” sintetizzando insomma,
“l’italiano debole del potere forte”.
Il rispecchiamento linguistico è il tramite di questa
inversione epocale di tendenza, che punta, attraverso
l’utilizzo di modi e termini maggiormente colloquiali e meno
formali rispetto al passato, a conquistarsi le simpatie e il
sostegno degli elettori già fidelizzati e soprattutto di
quella fetta sempre più ampia e sempre più bramata di
indecisi, astensionisti e delusi.
Dovendo fare una valutazione puramente linguistica,
lasciando da parte per un attimo i contenuti e le idee,
potremmo senza dubbio affermare che la prosa politica ha
ceduto copiosamente il passo all’approssimazione, è ricca
sempre più di termini popolari coloriti e di tendenza,
spesso mutuati dal gergo giovanile e dialettale, alternati
talvolta a termini stranieri, metafore sportive e latinismi,
non sempre immediatamente comprensibili e valutabili nel
loro significato effettivo dalle masse.
Twitter, Facebook, Instagram, i blog e i siti dei partiti,
sono diventati dunque molto più che amichevoli salotti
virtuali di rappresentanza, svolgono il compito preciso e
ormai irrinunciabile di laboratori della politica che
attraverso lo stimolo del confronto “misurano” giorno dopo
giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, la “temperatura”
del consenso, offrono un’immagine intimistica e
confidenziale dei loro protagonisti e di rimando, attraverso
un’interazione virale che conosce ben poche pause, mirano
alla radicalizzazione del proprio elettorato e
all’acquisizione di consenso sempre maggiore in una logica
di spartizione spesso ferina e non sempre civile e
deontologicamente corretta.
Fino a qualche decennio fa i comizi erano appuntamenti
profondamente sentiti e celebrati e, nel periodo di campagna
elettorale, il messaggio e la proposta politica
programmatica era affidata a un lungo, pausato e autorevole
monologo o ai contingentati e talvolta criptici messaggi
esposti nelle tribune elettorali delle tv generaliste; oggi
i talk-show abbondano, spettacolarizzano la politica in
maniera enfatica, talvolta eludendo i reali temi d’interesse
e spostando l’attenzione sui soggetti, contribuendo, di
fatto, alla creazione di veri e propri personaggi, in cui
l’elettorato possa identificarsi e riconoscersi.
I più lungimiranti direttori di rete e organizzatori di
palinsesti, hanno rilevato da tempo che la politica di oggi
ha molto peso in termine di audience e che l’agenda
televisiva non può prescindere da essa, a tal punto che gli
spazi dedicati si sono moltiplicati esponenzialmente
rispetto al passato, ma spostando in maniera considerevole
il baricentro dall’informazione pura, spesso astrusa e non
sempre accattivante, a quello dell’intrattenimento
“impegnato”.
Con queste premesse, viene premiato, in termini di feedback
spesso di natura interattiva e sondaggistica, il talento
comunicativo dei soggetti, talvolta a scapito dei contenuti,
in una stabile e voluta mescolanza di immagine pubblica e
immagine privata.
La virata decisiva della comunicazione politica si ha
comunque già intorno al decennio fra gli anni ottanta e
novanta quando, con l’avvento delle reti commerciali si
espande l’offerta di spazi a disposizione sia degli spot a
pagamento, sia dei dibattiti e la cultura asciutta e a
tratti un po’ ingessata dei concetti, cede il passo a quella
dell’immagine che privilegia per ragioni intrinseche la
telegenia, la presenza accattivante o perlomeno fortemente
caratterizzata e facilmente identificabile, la capacità di
trasmettere e veicolare il messaggio che a sua volta rende
gli interpreti dell’arena politica e televisiva dei veri e
propri brand, dei soggetti ai quali affidarsi e ai quali
dare fiducia.
Se la politica è dunque un grande set, una grande fucina di
istantanee e di slogan, i tempi cronometrati della
televisione e la brevità dei messaggi imposta dai social più
utilizzati, forse favoriscono un flusso ininterrotto di
informazioni, ma allo stesso tempo pregiudicano o modificano
la concreta possibilità di sedimentazione di contenuti nelle
coscienze e quindi l’effettiva capacità di scelta dei più, a
cui si può giungere solo attraverso un’attenta riflessione e
una valutazione ragionata delle differenti proposte.
Certo è che un elettore conquistato attraverso questi
canali, moltiplica il consenso molto più rapidamente, ma è
altrettanto vero che questo tipo di consenso è molto meno
stabile e più precario che in passato, poiché legato al
mercato visivo, sempre in perenne trasformazione e
desideroso di stimoli nuovi o rinnovati convincimenti.
Se è dunque facile arrivare ai più in minor tempo, è
innegabile che la strategia comunicativa si sia notevolmente
appiattita e presenti impercettibili differenze e la cosa,
porrà in tempi brevi l’urgenza di una riflessione agli
addetti ai lavori che si prefigga l’obiettivo di elaborare
nuovi percorsi e nuove tattiche comunicative per arrivare al
cuore e alla mente dell’elettorato, poiché, un fenomeno di
costume, per quanto di straordinaria portata, nel momento di
massima espansione contiene fisiologicamente in sé i
presupposti di un lento ma, inesorabile cambiamento di
rotta.
Politici della prima e della seconda repubblica avevano
background, immagine e visione del mondo fortemente marcate,
pensiamo ad esempio alla strategia comunicativa di Silvio
Berlusconi, o anche a quella di Umberto Bossi o Marco
Pannella: ognuno di loro ha costruito la propria presenza
sul palcoscenico politico facendo riferimento sempre ai
propri valori, alla propria storia e a una progettualità
costantemente molto attiva che, unita a una presenza fisica
ricca di “ancoraggi” visivi e verbali, li rendeva facilmente
individuabili e li poneva in maniera netta e strategica in
quel settore dell’elettorato che ne accreditava il potere
mediatico enorme; dei trascinatori, dei catalizzatori
d’attenzione insomma, molto ben differenziati fra loro, ma
dal ruolo intensamente efficace e difficilissimi da emulare,
se non sulla scia di un accademismo politico che francamente
è più materia da comprimari che da attori protagonisti.
In un terreno di scontro sempre più orientato a screditare
l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni nuove ai
problemi di sempre, si fa strada e forse avrà crescente
successo se applicata nei modi e nei contesti giusti, la
teoria estrapolata ancora una volta dal marketing della
“Mucca viola” di Seth Godin che trae la sua forza dalla
connotazione sorprendente e straordinaria del prodotto,
quindi, tradotto in termini politici, che punta su un
soggetto, magari un outsider, che risponda alle esigenze
latenti o disattese di una ben precisa porzione di
elettorato, che, attraverso il passaparola affidato ai
soggetti giusti, una sorta di opinion leaders, espanda a
livello pandemico il consenso.
Arrivare a molti, attraverso i canali giusti e proporre come
vincente e risolutiva la propria unicità è un’operazione che
presuppone non solo una forte, ma equilibrata
autoreferenzialità e un consapevole livello di autostima, ma
anche costanza e determinazione assoluta nel perseguire lo
scopo, una preparazione e una consapevolezza che permetta il
consenso nell’urna non solo nell’immediato, ma anche quel
consenso “interiorizzato” che garantisca fedeltà nel lungo
termine e stabilizzi il proprio capitale elettorale.
Forse il tweet o il selfie, oggi fonti autorevoli di “prima
mano” dei Tg, passeranno la mano, in un prossimo futuro, a
strategie sempre più articolate e sofisticate, forse la
stessa politica rivedrà il proprio alfabeto comunicativo
privilegiando un messaggio che punti più sulla fedeltà
tangibile e concretamente misurabile di quei valori che si
propone di rappresentare e sull’etica, piuttosto che sulla
spettacolarizzazione e sull’apparire spesso senza realmente
“esserci”.
Se per Disraeli “la determinatezza non è il linguaggio della
politica”, e “governare è far credere” come afferma
Macchiavelli nel suo Principe, lo spazio vergine in cui
posizionarsi nel panorama attuale per rappresentare la vera
alternativa è quello dell’integrità, della possibilità,
della chiarezza d’intenti e di una rinnovata visione e
quest’ultima può esistere e può realizzarsi solo mettendo da
parte faziosità sterili ed egoismi di parte e parlare
l’unica vera lingua possibile, quella della coerenza e della
responsabilità.
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all'articolo originale:
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